martedì 20 marzo 2018

Rassegna stampa 20 Marzo 2018


Sos ammortizzatori sociali- Allarme dei sindacati per il Sulcis e Porto Torres. Barca (Cisl): Pigliaru intervenga Fondi della mobilità in deroga, attesa per seicento operai

Sono 600, distribuiti tra Sulcis e Porto Torres, e ancora non hanno visto la mobilità in deroga per le aree di crisi complessa. C'è l'accordo e la relativa copertura finanziaria, ma ancora non c'è stato il pagamento. La maggior parte dei lavoratori aspetta da dicembre, alcuni (nei casi più estremi) da ottobre e altri addirittura dallo scorso marzo.

LA PROTESTA I sindacati dei metalmeccanici, che stanno seguendo in prima persona l'iter visto che la maggior parte degli operai interessati proviene dalle fabbriche e dalle piccole aziende chiuse, hanno già chiesto un incontro urgente al presidente della Regione Francesco Pigliaru.

«È un problema che interessa molti lavoratori, tra l'altro quelli più in difficoltà perché hanno perso il diritto agli ammortizzatori sociali nelle aree definite “di crisi complessa” – dice Rino Barca, segreteria Fsm Cisl del Sulcis - la loro mobilità è scaduta il 31 dicembre, c'è già un accordo con la relativa copertura finanziaria, ma ancora non c'è stato il pagamento. Purtroppo si tratta di persone alle prese con pesanti difficoltà economiche. Dalle interlocuzioni ufficiose che abbiamo avuto sappiamo che gli elenchi presentati sono stati esaminati e sono in attesa di essere accettati».

L'ATTESA Circa 600 ex operai che gravitano intorno al polo di Portovesme (la maggior parte di Alcoa) e all'area industriale di Porto Torres. Avendo perso i requisiti per la mobilità, così come stabilito dalla nuova normativa sugli ammortizzatori sociali, l'unico modo per poter garantire un sostegno a queste persone è stato inserirli nel percorso sulle are di crisi complesse, zone in cui è difficilissimo trovare nuova occupazione e gli indicatori socio-economici sono negativi. In Sardegna appunto Portovesme e Porto Torres.

Ora gli ex operai attendono da gennaio la mobilità. «Stiamo aspettando una convocazione, perché dobbiamo chiarire la questione e dare risposte a queste persone - dice Roberto Forresu, segretario della Fiom Cgil - forniti gli elenchi, pare che si stia attendendo il via libera dal Ministero. Ma c'è necessità di capire se c'è la copertura finanziaria e di stringere i tempi perché tutti possano usufruire della mobilità prevista per le aree di crisi complesse.

L'ACCORDO Tra l'altro c'è da fare un discorso anche per l'immediato futuro. L'accordo che abbiamo sottoscritto parlava di copertura fino al 30 giugno, è già tempo di capire se ci sono le risorse per il secondo semestre per prolungare lo strumento fino alla fine dell'anno. Ovviamente per noi rimane prioritario l'obiettivo finale, cioè riavviare le fabbriche e poter richiamare al più presto gli operai al lavoro».

Antonella Pani


Unione Sarda


Ganau: io in campo pur sapendo di perdere. Il partito faccia cose di sinistra
«Giunta abbandonata dal Pd Ora svolta unitaria e giovane»

Ora nel Pd sardo va di moda prendersela con la Giunta Pigliaru, per
spiegare il risultato elettorale inferiore alla media nazionale.
Gianfranco Ganau non la pensa così: «È mancato il Pd», riflette il
presidente del Consiglio regionale, reduce a sua volta da una netta
sconfitta nel collegio senatoriale del nord Sardegna. «Ripiegati su
noi stessi, non abbiamo svolto il ruolo di partito-guida della
maggioranza di centrosinistra».

Semmai, osserva Ganau, è il fatto di esser stata la principale forza
di governo ad aver penalizzato il Pd, anzitutto a livello nazionale:
«Paghiamo il fatto di aver domato la crisi peggiore di sempre. Abbiamo
riportato il Pil e l'occupazione a crescere, ma sono servite politiche
impopolari. Sgradite a volte agli stessi destinatari».

Significa che non potevate fare diversamente?
«No, come partito abbiamo delle responsabilità. Specie per la mancata
condivisione e l'errata comunicazione di alcune azioni. Siamo stati
percepiti talvolta come arroganti, presuntuosi».

Anche lei se la prende col carattere di Renzi?
«Di certo il suo atteggiamento ha influito. Ha sbagliato soprattutto a
non fare il referendum costituzionale su parti separate della riforma,
e a intestarselo come una battaglia personale, suscitando una
coalizione di tutti gli altri contro di lui».

Attaccando ora Renzi non state buttando via la svolta che aveva
impresso al Pd, prima spesso impantanato in discussioni infinite?
«Non bisogna buttare via niente di ciò che c'è stato di buono. Però il
partito deve fare autocritica, ritornare tra la gente, ascoltarla. Si
era un po' perso il contatto con la realtà. Abbiamo dato per scontato
i nostri consensi, quel 40% delle Europee».

Ora il Pd dovrebbe consentire un governo guidato da Di Maio o Salvini?
«Non sono favorevole a nessun accordo, gli elettori ci hanno collocato
all'opposizione e dato ad altri il compito di governare».

Perché in Sardegna siete andati peggio?
«Perché da noi la crisi è stata più profonda. Poi, certo, ci sono
responsabilità nostre. Non abbiamo ascoltato le esigenze di alcuni
settori».

Lei non voleva candidarsi: è pentito di aver accettato?
«Non la considero una sconfitta personale, siamo andati male ovunque.
È vero, non volevo: mi sono messo a disposizione per cercare di
contenere i danni».

Cioè sapeva di perdere?
«Beh, i dati erano chiari».

Ha influito anche la spaccatura del Pd a Sassari e i contrasti col
sindaco Sanna?
«Non so, temo però che in città non sia percepita con favore l'azione
dell'attuale amministrazione».

E la Giunta di centrosinistra ha condizionato negativamente il voto sardo?
«Questo sinceramente non lo credo. Il risultato è in linea col resto
del Sud. Vedo più un voto contro il governo, l'effetto di alcune
politiche non del tutto sbagliate ma forse un po' presuntuose, e poco
condivise».

A cosa sta pensando?
«Per esempio al Jobs Act. O alla Buona scuola: pur stabilizzando oltre
100mila precari, avevamo contro gli insegnanti. Si sarebbe dovuto
mediare di più».

Nell'Isola, dice il segretario del Pd Cucca, ci si è concentrati sulle
riforme a lungo termine e poco sulle emergenze. Condivide?
«In parte sì, ma le emergenze erano tantissime e su molte la Giunta ha
lavorato sodo. Da Meridiana alla Maddalena. Fino ad Alcoa, per cui
sembra che sia arrivata la soluzione: ma finché i lavoratori non
riprendono a ricevere la busta paga, non si vede il risultato».

E la sanità? Per molti, anche nel Pd, la riforma vi ha fatto perdere voti.
«Su questo, come su altri atti, c'è stato un problema di
comunicazione. Il riordino della rete ospedaliera è stato visto come
la chiusura dei presìdi territoriali, ma non è così. Anzi, il dialogo
Giunta-Consiglio ha creato margini più ampi rispetto al decreto
ministeriale, più restrittivo».

È stata opportuna anche la scelta dell'Asl unica?
«Era necessario un unico centro di controllo e di spesa al posto di
otto repubbliche indipendenti. Ma i benefici si vedranno col tempo».

Nel frattempo però le cronache segnalano quasi ogni giorno dei disservizi.
«Sono legati soprattutto al blocco delle assunzioni, ora superato.
Anche qui però ci vorrà del tempo perché la riforma vada a regime».

Tra le disfunzioni, ha fatto scalpore la mancanza di alcuni farmaci.
Non deriva proprio dai nuovi meccanismi centralizzati?
«No, da situazioni ereditate dal passato, con la proroga delle gare
d'appalto e la necessità di nuovi bandi».

Nell'ultimo anno (scarso) della legislatura, che cosa si può fare
realisticamente?
«C'è il tempo per riattivare una politica di ascolto delle sofferenze
e completare poche cose, ma importanti».

Quali?
«Anzitutto la legge urbanistica, per dare certezze al settore edilizio
e scacciare la percezione negativa e troppo restrittiva del Ppr. E poi
bisogna dare più efficienza a vari settori, dalla stessa sanità alla
gestione dei pagamenti in agricoltura: dove, non per colpa della
Giunta, restano i ritardi».

Avreste dovuto alzare di più la voce col governo?
«Su alcuni temi si poteva forzare di più. Per esempio sugli accantonamenti».

Nel complesso, che voto darebbe alla Giunta?
«Sufficiente, ha fatto tante cose. All'inizio è stata un po' troppo
tecnica, distante dai cittadini e dalla stessa maggioranza. Poi si è
migliorato. Del resto, se i partiti non esercitano il loro ruolo...»

Pensa anche lei che il Pd abbia di fatto abbandonato la Giunta a se stessa?
«Purtroppo sì. Come primo partito del centrosinistra avremmo dovuto
svolgere una funzione di indirizzo, ma ci siamo ripiegati troppo sui
nostri problemi interni».

Ha senso pensare ora a un rimpasto di Giunta?
«Bah. Nel caso, bisognerebbe farlo in tre giorni. E non ci sono le
condizioni. Non mi sembra il caso di perdere tempo in nuove
discussioni sugli assetti».

Qualcuno chiede di cercare subito un nuovo candidato alla presidenza.
Avete già archiviato Pigliaru?
«No, ma lui ha detto che non si sarebbe ricandidato e non ho notizie
di ripensamenti. Se è così, è giusto pensare al successore».

Il Pd sardo, invece, cosa deve fare per ripartire?
«Condivido molto la proposta di Silvio Lai di un partito sardo
federato col Pd nazionale, che si concentri molto più sui problemi
della Sardegna, a partire dall'insularità, e sia autonomo anche sul
piano organizzativo».

E anche più attento alle disuguaglianze? Insomma, più di sinistra?
«Sì, dobbiamo tornare a fare cose di sinistra. Ma nell'ultima
Finanziaria regionale ce ne sono almeno tre, molto importanti: il
piano per il lavoro; il reddito d'inclusione sociale che abbiamo
introdotto per primi, il finanziamento delle borse di studio
universitarie per tutti i 9mila aventi diritto».

Come immagina il nuovo corso del Pd?
«Intanto avrei gradito che il segretario si dimettesse già nella
direzione regionale di sabato scorso, ma va bene anche in assemblea.
Non ha colpe specifiche, ma in certi ruoli devi assumerti le
responsabilità e favorire il rilancio in tempi rapidi».

Al posto dell'attuale segretario vedrebbe con favore un reggente, o
meglio le primarie subito?
«Se l'assemblea eleggesse all'unanimità un reggente autorevole,
potrebbe anche restare fino alle Regionali. Se no, meglio dare presto
la parola a elettori e iscritti».

Lei quale soluzione preferirebbe, tra queste due?
«Sicuramente la prima. Quella unitaria. Dobbiamo smetterla di dividerci».
Oltre che unitaria, la svolta dovrebbe anche essere all'insegna del
ricambio generazionale?
«Sono favorevole a un rinnovamento al vertice, ci sono ottimi giovani
in grado di assumere ruoli dirigenziali. Il che non significa
rottamare le persone competenti: ma vedrei bene una svolta
generazionale anche per l'immagine del partito».
Giuseppe Meloni

Parla Pietro Pittalis, neodeputato di FI: «Porto a Roma gli interessi
dell'Isola»
«Vogliamo una Sardegna forte e attenta alle comunità locali»

«Dobbiamo iniziare ad agire come uomini di pensiero e pensare come
uomini d'azione, per dirla con Bergson. Dobbiamo definire un nuovo
patto tra Sardegna e Stato e, all'interno, ricostruire un rapporto
equilibrato con le comunità locali e il mondo agropastorale». Pietro
Pittalis si prepara a partire per Roma e giura che mai, neppure per un
istante, dimenticherà di essere «un rappresentante del popolo sardo».
Nato nel 1958 a Charleroi (in Belgio) dove il babbo, di Orune, faceva
il minatore, è tornato con la famiglia nell'Isola da bambino, poi ha
preso la laurea in Giurisprudenza a Firenze, è diventato avvocato e ha
vissuto tra Nuoro e Cagliari, in Consiglio regionale. Eletto per la
prima volta nel 1994 (con Forza Italia) alla sua quinta legislatura
consecutiva, lascia l'Aula dopo ventiquattro anni per andare a fare il
deputato.

Una lunga carriera politica, e ora parlamentare per la prima volta.
«Credo di aver maturato un'esperienza che mi aiuterà a
capire come
essere utile per dare voce alla Sardegna».
Le farà bene disintossicarsi dal Consiglio regionale.
«È stato sempre bellissimo, e ho conosciuto persone di grande spessore».

Chi ricorda in particolare?
«Federico Palomba, un galantuomo, io ero al mio esordio,
all'opposizione, avevamo grande sintonia e affinità culturali, al di
là dei rispettivi ruoli».

Momenti tristi?
«Quando non siamo riusciti a dare risposte a lavoratori licenziati, a
precari non stabilizzati, le vertenze irrisolte, penso a Ottana, a
Macomer, a Portovesme, a Porto Torres, quelli sono stati i momenti
peggiori, per i quali ciascuno di noi deve sentire una forte
responsabilità».

È stato anche assessore.
«Sì, al Bilancio, dal '99 al 2001, con Mario Floris presidente.
Raccoglievo un'eredità pesante, erano state impegnate risorse ingenti
per i piani straordinari per l'occupazione, dovevamo finanziare la
legge 28 sull'imprenditoria giovanile, poi c'era l'obiettivo di dotare
ogni sardo di un computer, il rilancio dei programmi integrati d'area.
Abbiamo attuato interventi che, se andiamo a rivedere le cifre, hanno
dato la migliore performance degli ultimi vent'anni in termini di
riduzione del debito, di quantità di fondi messi in circolazione, di
aumento dei consumi».

E oggi come sta la Sardegna?
«Sta peggio. Perché non si è colto il senso di una società che cambia,
di un processo industriale esaurito. La politica non è stata in grado
di proporre soluzioni alternative né di sostenere con misure adeguate
comparti come l'agroalimentare, il turismo, l'agricoltura e la
pastorizia. Inoltre abbiamo una continuità territoriale che non
funziona, un piano energetico perennemente in fase di avvio, si è
andati verso un centralismo di funzioni e poteri ai danni dei Comuni.
Tutto questo ha determinato la sonora sconfitta del centrosinistra e
della Giunta Pigliaru».

Pensa che dopo il flop elettorale si sarebbero dovuti dimettere?
«Dico solo che un tempo per molto meno si prendeva atto del
fallimento, e non sussistendo più il rapporto di fiducia con gli
elettori, le dimissioni erano un atto dovuto. Purtroppo oggi la
politica ha scordato le buone pratiche, si continua ad andare avanti
facendo finta che nulla sia successo o, ancora peggio, mistificando il
risultato facendo analisi completamente scollegate dalla realtà».

Segue le vicende del Pd?
«Leggo leggo».

E cosa pensa?
«Che oggi a frenare un Movimento di sola protesta, i Cinque Stelle, è
rimasto solo il centrodestra, che con il 32% (senza neanche l'apporto
dei Riformatori) è competitivo e rappresenta l'unico vero argine a
questa sorta di ubriacatura generale».

Intanto a livello nazionale si è parlato di un possibile accordo tra
Forza Italia e Pd.
«Sulle tre grandi emergenze - pressione fiscale, sostegno alle povertà
e creazione di posti di lavoro - si può trovare la convergenza per
dare risposte immediate agli italiani. La nostra missione è la
soluzione di questi problemi, poi, ci affidiamo alla saggezza e alla
prudenza del presidente Mattarella, cui spetta districare la matassa».
Il vostro alleato Salvini sta trattando con Di Maio.
«Io guardo ai fatti più che alle ricostruzioni, e vedo che lui per ora
si è mosso nel perimetro della coalizione, e confido sul fatto che
continui a essere portatore di quel 37% che ha preso il centrodestra a
livello nazionale, e non soltanto del suo 17%».

Obiettivo Regionali del 2019.
«Il 15% che abbiamo preso alle Politiche dimostra che Forza Italia
c'è. Ora si tratta di attrezzarci meglio, di valorizzare i giovani, e
invito donne e uomini a tornare alla militanza attiva, per costruire
una grande squadra».

Però vi manca un leader.
«Ci sono diverse personalità che si distinguono amministrando Comuni
oppure nei parlamenti, italiano ed europeo. Il nome scaturirà da un
programma e un'alleanza».

Alleanza con chi?
«Sono fermamente convinto che la Sardegna possa essere un grande
laboratorio politico per costruire qualcosa di nuovo, un centrodestra
moderno che guarda alla questione sarda, identitaria e al rilancio
delle zone interne, aprendo alle espressioni della migliore tradizione
sardista e sovranista. Serve un fronte unico e compatto, per una
Sardegna autenticamente autonomista e forte con lo Stato italiano».
Cristina Cossu

Gli alleati alla Lega: o Palazzo Madama o il premier. Di Maio insiste:
niente condannati
Meloni e Berlusconi, pressing su Salvini per il Senato

O è strappo o è il caos. Quattro giorni alla prima riunione del
Parlamento per l'elezione dei presidenti di Camera e Senato, e tutto è
sempre più in alto mare. Proseguono i contatti tra Luigi Di Maio e
Matteo Salvini, ma sul tavolo ancora nessun nome da portare all'esame
delle due assemblee.

I due leader proseguono la loro competizione per assicurarsi una via
preferenziale al Quirinale, ma sulla partita delle presidenze il
leader del Carroccio è tra due fuochi. Sia Giorgia Meloni che Silvio
Berlusconi lo stanno mettendo alle strette: o la presidenza del Senato
o la premiership. Tutto non si può avere. Gli azzurri ricordano che a
palazzo Madama Forza Italia è il secondo gruppo, dopo M5S e sopra la
stessa Lega, e non intende restare ai margini della trattativa. Anche
se il nome di Paolo Romani sembra aver perso appeal, FI punta i piedi
e pare che alcuni emissari fidatissimi di Berlusconi abbiano avuto
incontri informali col Pd.

Proprio da FI c'è la richiesta di coinvolgere in Senato il Nazareno su
vicepresidenti, questori e segretari. I numeri, viene spiegato,
escluderebbero i democratici, ma per una questione di equilibrio non è
auspicabile. È già accaduto nella scorsa legislatura, col M5S che
rischiava di non avere rappresentanti nell'ufficio di presidenza. Il
Pd resta apparentemente a guardare: per ora la palla è nelle sole mani
di Salvini. Due le opzioni per la Lega: tenere salda la coalizione e
cedere il Senato agli azzurri o la Camera a Fratelli d'Italia o Pd,
oppure confermare le mire sulla seconda carica dello Stato e
consegnare Montecitorio ai pentastellati.

Quest'ultima via farebbe saltare l'alleanza con l'unica prospettiva
che Lega e M5S si votino da soli i due presidenti. E, anche con
fatica, ce la farebbero. Salvini per lo scranno più alto del Senato
punta su Roberto Calderoli o Giulia Bongiorno. Di Maio preferirebbe
Riccardo Fraccaro, anziché Emilio Carelli, perché è tra i maggiori
sostenitori dell'abolizione dei vitalizi.

Di certo Di Maio non intende mollare la presa: «Bisogna rispettare
l'esito delle elezioni», avverte, e rivendica «la guida della Camera».
«Sarà una settimana emozionante», aggiunge il grillino, confermando lo
stile istituzionale che lo distingue dal 4 marzo: «Siamo disponibili a
ragionare con tutti». Ma «prima il metodo, poi i nomi. E ribadisco:
per le presidenze, no a condannati o persone sotto processo». Un
messaggio a Salvini: né Romani né Calderoli.

È Danilo Toninelli a scrivere nel dettaglio l'agenda: «Di nomi non si
è parlato, lo faremo nei prossimi giorni». L'idea del Movimento è di
mettere sul piatto i loro candidati domani, per registrarne il
gradimento. Intanto è partito il conto alla rovescia.


ASSEMINI. Per le comunali
Casula all'attacco Pd verso il voto sempre più diviso

L'avvicinarsi delle elezioni comunali non sana la spaccatura nel Pd di
Assemini: tre circoli (Parks, Rosselli e Spano) su cinque prendono le
distanze dal segretario cittadino, Antonio Caddeo, a detta loro
«intenzionato a formare una coalizione con il centrodestra.» Accusa
negata dal capogruppo in Consiglio comunale, l'ex sindaco Luciano
Casula: «Non abbiamo mai dialogato con il centrodestra ma avuto
incontri con Riformatori, liste civiche e Antonio Scano. Il tutto
sotto la guida del segretario legittimato, a differenza dei dissidenti
Francesco Consalvo, Roberto Pili e Simone Rivano».

L'ex sindaco risponde a chi aveva definito il circolo Lecis di Caddeo
allo sbando: «Nel 2013, nel suo circolo, Consalvo era stato l'unico a
essere inserito in lista, per garantirsi un posto in Consiglio. Il
resto della squadra era stato completato dai circoli Lecis e Moro che,
a differenza degli altri, hanno sempre contribuito al lavoro politico.
Alle scorse elezioni i dissidenti hanno mosso un dito nella campagna
elettorale».

Consalvo ricorda: «Era stato Casula a chiedermi di candidarmi, in
quanto segretario. C'era stata una frammentazione ma ora c'è una
maggioranza del partito pronta a formare una lista di centrosinistra.
Siamo contrari ad ammucchiate con il centrodestra e Caddeo -
sfiduciato - fa finta di nulla». Per Rivano, «la colpa della
situazione attuale è di Casula: 10 anni fa, quando ero candidato,
aveva fatto campagna elettorale per Paolo Mereu (Fi) e nel 2013 è
riuscito a dimezzare i voti del partito. Da anni chiediamo un
rinnovamento generazionale». (l.e.)

BARI SARDO. Assemblea provinciale, Sabatini accusa: «Pochi iscritti»
Pd, analisi di una disfatta: Sanità, riforma non capita

«La riforma sanitaria non è stata capita». Il Pd ogliastrino si
interroga sulla sconfitta elettorale alle politiche con lo sguardo
rivolto alle regionali. Nel tardo pomeriggio di ieri il segretario
Carlo Balloi ha presieduto la direzione e l'assemblea del Pd
organizzata al Centro civico di Bari Sardo: «Sarà solo l'inizio -
aveva anticipato Balloi - di una lunga fase di riflessione e di
confronto con tutti: iscritti, simpatizzanti o semplici cittadini.
Insieme a loro dobbiamo affrontare la soluzione dei problemi».

LA TESI DEGLI SCONFITTI Eppure non sarebbero mancati, a giudizio del
segretario, provvedimenti importanti varati dal governo nazionale e
regionale, a favore dell'Ogliastra: «Penso - prosegue Balloi - alla
riforma ospedaliera o alla programmazione territoriale. Resta il fatto
che non sono state percepite dalla gente in quanto ancora inattuate.
Dobbiamo rialzarci e spronare la giunta regionale».

Intanto Franco
Sabatini, candidato ogliastrino per la Camera, ha dovuto cedere il
passo alla pentastellata Mara Lapia in conseguenza del crollo del Pd.
«La gente si è sentita abbandonata - è la riflessione di Sabatini -
intorno ai poli industriali avanza il deserto, da Ottana ad Arbatax,
mentre la burocrazia rallenta fino allo spasimo i principali
provvedimenti varati dalla giunta regionale. I partiti come il nostro,
contrassegnati da leaderismo, pochi iscritti e poca partecipazione,
hanno mostrato la loro inadeguatezza. Bisogna ripartire dai paesi, dai
circoli e dalle primarie».

RIPARTIRE DALLA BASE Al momento i circoli del Pd non godono certo di
buona salute. Come a Jerzu, dove si vota a maggio per il rinnovo del
consiglio comunale. Alle politiche, il Pd ha preso la metà dei voti
rispetto ai Cinquestelle: «Ripartire dal basso - spiega Piero Carta,
coordinatore del circolo jerzese - è una strada obbligata ma non sarà
facile, soprattutto con i giovani che hanno individuato nel web il
canale preferito per la partecipazione. In vista delle elezioni
comunali, bisogna mantenere netta la distinzione dal quadro di
riferimento nazionale».

Intanto il segretario provinciale Carlo Balloi annuncia un timido
segnale di svolta pervenuto con la richiesta di un certo numero di
tesseramenti spontanei, contestualmente all'esigenza di ristabilire
rapporti unitari con Leu nell'ottica di un rafforzamento del centro
sinistra in vista delle battaglie future.
Nino Melis

La Nuova

Careddu: l'aiuto di Tajani è un passaggio chiave

insularità e trasporti
di Luca Rojch
SASSARIL'assist che non ti aspetti arriva dalla stessa Europa. Quella
che fino a oggi ha considerato la Sardegna come estremo confine
dell'impero. Una trascurabile isola del pigro Mediterraneo. Ma le
parole del presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani, nella sua
intervista alla Nuova Sardegna, sembrano segnare nuove relazioni tra
l'isola e le istituzioni di Bruxelles. Da oggi un po' meno ostile. Il
presidente si è detto pronto a sostenere le rivendicazioni portate
avanti in questi anni dalla giunta guidata da Francesco Pigliaru.

Il governatore e il presidente si erano già incontrati nell'aprile del
2017. E in quell'occasione Pigliaru aveva mostrato il dossier
insularità. Nello stesso tempo aveva chiesto che l'Europa avesse un
metodo condiviso con l'isola e portasse avanti le richieste della
Sardegna. E con il governo che sembra sempre più un equazione
impossibile da risolvere il canale con l'Ue diventa preziosissimo.
Careddu. L'assessore ai Trasporti Carlo Careddu, che con i burocrati
dell'Ue si scontra dal giorno stesso del suo insediamento, lo ha
capito e non nasconde la sua soddisfazione per l'apertura di Tajani.
«Apprezzo le parole del presidente del Parlamento europeo e leggo il
suo intervento come un sostegno alla battaglia della Regione
finalizzata al riconoscimento di diritti fondamentali come quello alla
mobilità - dice Careddu -.

I sardi e la Sardegna chiedono che tutte le
istituzioni, a livello nazionale ed europeo facciano la loro parte, al
di là delle appartenenze e degli schieramenti, per colmare il gap
esistente tra insularità e continente in termini di trasporti,
energia, infrastrutture. Ci aspettiamo adesso che le autorità
politiche e le strutture burocratiche della Commissione siano
conseguenti all'apertura dimostrata dal presidente Tajani».Le parole
d'ordine. Tajani ha posto come obiettivo il superamento delle distanze
tra l'isola e le istituzioni Ue «in termini di opportunità, di risorse
economiche e, soprattutto, di competitività. Essere un'isola determina
un marcato svantaggio sul piano dello sviluppo e della crescita, ma in
questi anni sono stati fatti importanti passi in avanti per migliorare
questa situazione.

Il Parlamento europeo nel 2016 ha approvato a larga
maggioranza una risoluzione che verteva proprio sul riconoscimento
della condizione di insularità». Un primo passo che Tajani non vuole
lasciare isolato. E chiede che il lo Stato italiano faccia una legge
in cui venga riconosciuto lo status di insularità della Sardegna e
delle maggiori isole. «Oggi questo ritardo pesa nelle tasche dei sardi
per circa 1,1 miliardi di euro. E gli effetti consistono in maggiori
oneri per il trasporto delle merci, per la produzione, forti
ripercussioni sul piano energetico e dei collegamenti». Tajani entra
anche in un altro capitolo complicato dei rapporti tra Europa e
Sardegna: i trasporti.

E centra subito il tema chiave. «La difficoltà
dei collegamenti da e per la Sardegna resta la conseguenza più diretta
di una condizione insulare non ancora riconosciuta». Ma forse le
dichiarazioni più importanti, che suonano come una sinfonia melodiosa
alle orecchie dell'assessore riguardano la Continuità territoriale.
«Bisogna garantire dei meccanismi di compensazione e di perequazione,
la continuità territoriale è uno di questi, che riducano gli oneri per
cittadini ed imprese. Sugli aiuti di Stato certo è che occorre
superare i meccanismi stringenti che limitano la mobilità da e per
l'isola». Su questa base sembra aprirsi la strada a un nuovo rapporto
tra l'isola e l'Europa e tra la Regione e gli organismi dell'Ue.

Verso l'intesa per le presidenze I dem aprono al governo di scopo
Di Maio non chiude ed è pronto a ridiscutere la sua "rosa". In agenda
il vertice con Salvini. A metà settimana si comincerà
a parlare chiaramente di nomi. No ai condannati o sotto processo

Due partite separate, una sulle Camere, l'altra sul governo. Due
partite che Luigi Di Maio è pronto a giocare con interlocutori
diversi, come Lega e Pd, nel giorno in cui dai Dem giunge una prima
apertura ad un governo di scopo. All'inizio della settimana cruciale
per le presidenze di Camera e Senato è questa la strategia tracciata
dal M5S e dal suo leader che, nelle prossime ore, si appresta a
stringere innanzitutto sull'accordo per la seconda e terza carica
dello Stato. E, su questo campo, è Matteo Salvini il principale
interlocutore del M5S. Di Maio e il leader della Lega, prima della
riapertura del Senato, venerdì, si sentiranno e potrebbero vedersi.

E il vertice tra Di Maio e Salvini s'incrocia con il colloquio che
quest'ultimo avrà, mercoledì, con Silvio Berlusconi. Sarà quindi a
metà settimana che si comincerà a parlare, in maniera chiara, di nomi.
Ma qualche dato già emerge. Innanzitutto resta il «no» del M5S a
candidati alle presidenze delle Camere condannati o sotto processo. Un
«no» che inevitabilmente per Palazzo Madama coinvolge il capogruppo di
FI Paolo Romani. Difficile, inoltre, che il gruppo di senatori del M5S
dia il suo sì a Roberto Calderoli (che non sembra essere tra le prime
carte neppure di Salvini). E se si pensa che il M5S insiste sulla
guida della Camera il nome in pole, al Senato, sembra essere della
senatrice leghista Giulia Buongiorno.

Un accordo in tal senso
sbloccherebbe, come in un cubo di Rubik, anche l'intesa per
Montecitorio dove, tra i pentastellati, il nome più quotato resta
quello di Riccardo Fraccaro. «Siamo il perno della legislatura, siamo
decisivi», afferma Di Maio riunendo per la prima volta i 112 senatori
del Movimento e ribadendo come, da parte sua, ci sia «la disponibilità
al dialogo con tutti» ma anche la volontà che, chi sarà eletto ai
vertici delle Camere debba «concorrere al cambiamento, a partire
dall'abolizione dei vitalizi». «Non c'è una spartizione di poltrone,
il nostro compito è di sostenere le persone più credibili», è la
replica che arriva dal portavoce del Pd Matteo Richetti. Richetti che
apre ad un «esecutivo di scopo su pochi punti», allargando la faglia
nei Dem tra i potenziali responsabili e chi, come i renziani, non
vuole abdicare da un ruolo di opposizione.

E, sempre ieri, un'altra
apertura è arrivata dal capogruppo uscente Pd Ettore Rosato, che
definisce «utile», anche per un eventuale alleanza di governo, la via
intrapresa dall'Spd in Germania: il referendum tra gli iscritti.
Fibrillazioni che, in alcun modo, vanno legate al Colle: il Quirinale
fa sapere infatti che Mattarella non cerca la sponda di partiti o
correnti. Ma i sommovimenti nel Pd sono visti con particolare
attenzione dal M5S. Di Maio non ha ancora eliminato dalla rosa delle
soluzioni quella di un governo con l'appoggio esterno con il Pd. «La
nostra forza è adattarci e migliorarci», spiega, non a caso, ai
senatori, citando l'intervista in cui Beppe Grillo, a La Repubblica,
apre di fatto a un governo di condivisione sui temi. L'asse con la
Lega resta invece meno percorribile, sia per gli equilibri interni al
centrodestra sia per la prevedibile protesta di parte dei gruppi M5S,
più vicini, almeno culturalmente, al mondo della sinistra.

E ieri, non
a caso, Di Maio ha ribadito la sua apertura sulla rosa di governo.
«Dei ministri si parla con Mattarella, dei temi invece si parla con i
partiti», spiega, facendo capire come la squadra di governo presentata
prima del voto sia «sacrificabile» nel dibattito futuro per
l'Esecutivo, «slegato» - sottolinea Di Maio - dalla partita per le
presidenze delle Camere. Una partita che difficilmente potrebbe finire
con Salvini a capo del Senato e Di Maio alla guida della Camera: al
momento delle elezioni per le presidenze il tavolo dei giochi per il
governo sarà tutt'altro che concluso. Ed è un tavolo al quale sia Di
Maio che Salvini vogliono sedersi da protagonisti.

Di Maio assicura per la prima volta: lista dei ministri non intoccabile
Il Colle dà tempo, ma fino a luglio di Fabrizio Finzi

Mentre i neo-senatori Cinque stelle riempiono il Senato, Luigi Di Maio
apre decisamente al dialogo assicurando per la prima volta che la
lista di ministri M5s non è intoccabile. «Dei ministri parleremo con
Mattarella», ha detto confermando che la legislatura partirà con al
centro il M5s. Non c'è però la stessa fiducia al Quirinale dove si
assiste a un quadro politico che non decolla, lasciando in campo più
soluzioni di Governo, tutte spericolate. Il presidente è pronto a dare
tempo alla politica, sapendo che potrà avere elementi di valutazione
affidabili solo attraverso le consultazioni che si apriranno ai primi
di aprile. Al Colle ci si prepara anche ai ritmi delle maratone
mettendo in conto la possibilità di dover effettuare più round di
consultazioni che, tra l'altro, avrebbero il pregio di portare a
maturazione il frutto di un Governo.

Naturalmente una deadline è stata
tracciata, sospinta dalla logica delle scadenze. Non si può andare
oltre luglio, sia perché la non voluta opzione di un ritorno alle urne
a ottobre non si può cancellare dalla realtà (servono dai 45 ai 70
giorni dallo scioglimento alle elezioni), sia perché sarebbe surreale
pensare di mandare gli italiani al mare senza un Governo. Per non
parlare di quali potrebbero essere le reazioni dei mercati. Ovvio che
Mattarella voglia con forza che la legge di Bilancio 2019 sia
approvata. Se si dovesse arrivare all'esercizio provvisorio la
responsabilità cadrebbe sulle forze politiche.

Al di là dell'opzione
zeta, cioè il ritorno alle urne con questo sistema elettorale, rimane
negli scenari valutati quella di tentare un Governo con l'obiettivo di
fare Finanziaria e modifica del Rosatellum per poi tornare alle urne,
magari accorpando politiche e europee, previste nella primavera 2019.
In quest'ottica resta determinante il ruolo del Pd che è pur sempre il
secondo partito del Paese. I Dem sono silenziosi ed è difficile capire
cosa si muova veramente dentro il partito. Ma avanza l'idea di far
decidere la linea agli iscritti con un referendum. È chiaro che in
questa fase di stallo un Pd dialogante potrebbe essere utile anche a
Mattarella se si trovasse costretto a usare la moral suasion del
Quirinale per tentare la nascita di un Governo di scopo.

In mezzo a
tutto ciò c'è la partita delle presidenze delle Camere che tutti però
vogliono staccata da quella per il Governo. Matteo Salvini ci ragiona
ma si trova nella difficile posizione di doverne rendere conto a un
Silvio Berlusconi sospettoso. Che rivedrà mercoledì prossimo.Intanto a
benedire le aperture di Di Maio ci ha pensato Beppe Grillo: «noi siamo
un po' democristiani, un po' di destra, un po' di sinistra, un po' di
centro. Possiamo adattarci a qualsiasi cosa».

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Federico Marini
skype: federico1970ca


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